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CAPITOLO I

Progresso tecnico ed occupazione: sintesi dei contributi teorici

1.4 Studi teorici recenti

In tempi più recenti, Carlota Perez (1983) ha supposto che le "fasi di prosperità" abbiano luogo quando si realizza un "felice incontro" tra le nuove tecnologie di un'onda lunga ed il quadro istituzionale.
Viceversa, secondo il suo pensiero, le depressioni rappresentano periodi di scollamento tra le tecniche di produzione emergenti e le istituzioni. L'estesa generalizzazione delle nuove tecnologie è possibile soltanto in seguito ad un periodo di adattamento delle istituzioni sociali alle caratteristiche ed alle potenzialità delle nuove tecniche.
La Perez rileva che Schumpeter riconobbe tardivamente la necessità di politiche governative che affrontassero le depressioni e, per giunta, in termini molto generici. Addirittura, egli prese una posizione per lo più ostile rispetto alla teoria keynesiana.
Secondo la Perez, il mancato incontro tra il quadro istituzionale e gli eccezionali vantaggi in termini di costi e di produttività fornisce l'impulso a cercare le riforme sociali e politiche per superare la crisi.
In ogni caso, i tempi richiesti saranno lunghi, perché è necessario il mutamento del sistema educativo e formativo, delle strutture amministrative ed aziendali, dei mercati dei capitali, dei sistemi finanziari, del tipo di investimenti, delle leggi, della politica e del commercio a livello nazionale ed internazionale. E' pertanto fondamentale l'intervento pubblico.
Anche la scuola francese di economisti interventisti ha evidenziato la rilevanza di periodi di mutamento istituzionale per un allineamento con i mutamenti strutturali. In particolare, Boyer (1989) ha insistito sulla capacità di innovazione istituzionale di ogni Paese. Vi è la necessità di cambiare i metodi di gestione, le relazioni industriali e le politiche del lavoro per ottenere un grado di investimenti sufficiente ad un nuovo livello di sviluppo economico e tecnico.

Nel 1981 Pasinetti pubblicò il suo Structural Change and Economic Growth, un saggio di teoria economica sull'evoluzione di lungo periodo del sistema industriale, costruendo un modello dinamico multisettoriale.
Analizziamone le implicazioni, in presenza di progresso tecnico, sul mutamento strutturale della produzione e dell'occupazione, sul cambiamento della composizione della domanda (dato dal mutamento nei gusti e nelle preferenze dei consumatori) e su di una popolazione crescente.
Vediamo quali sono le tre novità caratteristiche del modello qui proposto.
In primo luogo, Pasinetti costruisce un modello disaggregato a più settori, che considera le differenti variazioni della produttività nei diversi rami dell'economia. Questo approccio analitico è ben diverso dai tradizionali, classici o keynesiani che siano.
In secondo luogo, definisce il concetto di integrazione verticale del processo produttivo, come il fenomeno per mezzo del quale ogni fattore è fatto diventare input di lavoro o servizio reso da stocks di beni capitali, senza fasi transitorie. In tal modo, Pasinetti consente lo svolgimento di un'analisi dinamica, partendo da uno schema input-output, considerando anche il progresso tecnico.
Infine, egli sviluppa il suo studio secondo quel tipo di indagine che i classici definivano "naturale", perché talmente fondamentale da essere avulsa dalla situazione istituzionale della società.
Per l'autore, lo schema dei neoclassici (basato sul principio della massimizzazione sotto dati vincoli) è inadeguato a raffigurare una moderna società industriale, nella quale il progresso tecnologico muta continuamente tutti i dati.
Il concetto di industria è al centro dell'opera, è di tipo dinamico ed implica la produzione e, quindi, un incessante processo di apprendimento (che fa variare nel tempo le grandezze economiche): proprio in questo consiste il progresso tecnico per Pasinetti.
Questa acquisizione continua di know how è il fondamento di tutto il sistema, poiché punta al miglioramento sia dei processi, sia dei prodotti. In sostanza, è il lavoro umano l'artefice principale della produzione, da cui possono essere prodotti tutti beni possibili.
Prima di descrivere il suo modello, Pasinetti considera alcune ipotesi.
In primis, definisce il suo schema analitico di pura produzione, sulla quale egli principalmente si sofferma. Il modello è dominato dal processo di apprendimento degli individui, sia per quel che riguarda i miglioramenti nella tecnica produttiva, sia per ciò che concerne l'evoluzione nelle preferenze di consumo.
A tal proposito, la seconda ipotesi vede il sistema economico rappresentato da un modello autarchico, in cui si ravvisano soltanto due attività: una di produzione ed una di consumo.
In terzo luogo, nel modello si considerano solo le merci prodotte finali: così tutti i processi produttivi sono rappresentati come verticalmente integrati, vale a dire che tutti i fattori sono ridotti ad inputs di lavoro od a servizi forniti da stocks di beni capitali, senza stadi intermedi.
La quarta ipotesi assicura che il progresso tecnico è tale da richiedere in ogni processo produttivo la divisione del lavoro ed una marcata specializzazione. In ogni momento, il sistema ha una propria struttura tecnica, rappresentata da una serie di funzioni di produzione, ciascuna delle quali esprime la fabbricazione di ogni singolo bene come funzione tecnica dei vari inputs fisici (lavoro, beni capitali, merci intermedie...).
In quinto luogo va rilevato che la singola tecnica al momento in funzione è l'unica importante, essa in un dato momento non può essere mutata. Solo nel lungo periodo è possibile cambiare la struttura tecnologica, quando con la sostituzione dei beni capitali usurati si scelgono nuovi metodi di produzione.
In sesto luogo, il modello assume che in ciascun periodo ed in ogni settore una proporzione costante della capacità produttiva svanisca in seguito alla sua utilizzazione.
Infine, lo studio in esame è rivolto all'analisi di produzione ed occupazione, le quali mutano struttura al variare della domanda, che è endogena, mentre popolazione, conoscenze tecnologiche e modelli di consumo sono esogeni.
In particolare, la popolazione del sistema fornisce i flussi di lavoro ai vari processi produttivi e detiene gli stocks di beni capitali. Inoltre, esprime la domanda di beni finali, sia di consumo sia di investimento.

Dopo aver considerato le ipotesi, si passi ora ad analizzare il modello. Pasinetti assume che il sistema economico al tempo iniziale sia in equilibrio: la domanda globale genera esattamente quel volume di produzione che richiede la piena occupazione della forza lavoro esistente e la capacità produttiva dei vari settori è pienamente utilizzata.
Sostiene poi che col passare del tempo le produttivit๠dei diversi settori mutino (per l'introduzione del progresso tecnico), che la domanda pro-capite vari (per un cambiamento delle preferenze dei consumatori, scaturito dall'esistenza dei nuovi prodotti) e che la popolazione aumenti: pertanto, per mantenere il sistema in equilibrio di piena occupazione nel tempo, occorre soddisfare due condizioni.
Innanzitutto, visto che la popolazione e la tecnologia mutano, il sistema deve espandere di continuo la sua produzione per poter stare al passo con gli aumenti della domanda pro-capite e con quelli della forza lavoro.
In secondo luogo, va soddisfatta la condizione macroeconomica della domanda effettiva, la quale prevede che la domanda aumenti in misura esattamente proporzionale alla crescita della produttività. Se così non fosse, il sistema genererebbe disoccupazione.
Il modello mostra che il mantenimento della piena occupazione nel tempo non è un fatto endogeno e non si realizza automaticamente.
Al contrario, il sistema economico tende alla disoccupazione tecnologica, perché generalmente la domanda varia in misura meno che proporzionale alla crescita del reddito e non può crescere incessantemente, poiché ciascun bene ha un grado di saturazione nel consumo.
Tuttavia, esistono due fattori che operano nel lungo periodo e che riescono a compensare quegli effetti negativi delle dinamiche del sistema economico sull'occupazione.
Primo fattore è per l'appunto il progresso tecnico che, incrementando i settori produttori di nuovi beni, stimola la crescita della domanda effettiva.
Il secondo fattore è legato all'uso della forza lavoro, con la diminuzione degli attivi sulla popolazione totale e/o con la riduzione del tempo di durata della settimana lavorativa.
Eppure, persino se la condizione macroeconomica della domanda fosse sempre soddisfatta, in media la metà dei settori genererebbe disoccupazione tecnologica col passare del tempo, mentre l'altra metà riassorbirebbe la disoccupazione creata dai settori in cui la crescita della domanda pro-capite è minore di quella della produttività.
Pertanto, se si vuole mantenere l'equilibrio macroeconomico, l'occupazione richiede una forte mobilità intersettoriale della forza lavoro.
Ove la popolazione crescesse, l'equilibrio potrebbe esser favorito dal pre-pensionamento di alcuni dei lavoratori più anziani nei settori in declino, se la domanda fosse ristagnante o in contrazione, ed anche dall'immissione di giovani nei settori in espansione. Inoltre, l'aumento degli abitanti porta con sé un ampliamento della domanda di tutti i beni.
D'altra parte, è la crescita della produttività a generare disoccupazione tecnologica.
L'effetto complessivo di queste variabili è di far variare l'intera struttura dell'occupazione, in altre parole le proporzioni nelle quali i lavoratori sono distribuiti tra i diversi settori dell'economia.
Si possono proporre tre considerazioni conclusive riguardo alla dinamica strutturale della produzione e dell'occupazione, in presenza di progresso tecnico.
La prima è che gli operatori sono costretti a prendere decisioni sempre nuove per indirizzare il sistema verso l'equilibrio: non possono affidarsi a meccanismi di autoregolamentazione del sistema, perché tali meccanismi non operano nella direzione auspicata. Esiste un problema di politica industriale dell'innovazione tecnologica. La seconda considerazione è che la soddisfazione della condizione macroeconomica di equilibrio di piena occupazione non serve a mantenere l'equilibrio dinamico.
Si pone quindi un problema di politica dell'occupazione, visto che la dinamica del sistema richiede una redistribuzione dell'occupazione tra i vari settori in base all'evoluzione della tecnologia e della domanda.
L'ultima considerazione riguarda l'assunzione implicita di una data struttura dei prezzi e da una data distribuzione del reddito, alle cui variazioni la domanda è sensibile.
Inoltre, nel modello il saggio di profitto influenza la scelta della tecnica ed il saggio di salario influisce sul grado di meccanizzazione dei processi produttivi, cioè il rapporto capitale/lavoro.
In conclusione, Pasinetti suggerisce che il progresso tecnico è di tipo labour-saving e che, pertanto, i suoi effetti consistono sia in un aumento dei salari reali nel lungo periodo, sia in una necessaria redistribuzione dell'occupazione verso produzioni nuove e tradizionali, che hanno una domanda in espansione e/o si risolvono in una diversa distribuzione del tempo lavorativo sull'intera forza lavoro (Schilirò, 1984).
Secondo Sylos Labini, le invenzioni dipendono da molti fattori, alcuni esogeni (come sostenuto dalla maggior parte degli economisti), altri endogeni al sistema economico (Sylos Labini, 1991).

L'autore definisce endogene quelle invenzioni che sono generate da motivazioni prettamente economiche. Sappiamo che per tradursi in innovazione, un'invenzione deve passare il vaglio dell'economicità (in pratica deve essere profittevole), ma questo non significa che tutte le invenzioni vadano definite endogene.
Definisce, invece, esogene quelle invenzioni, grandi idee, colpi di genio che provengono dal progresso intellettuale, dal progresso scientifico disinteressato e/o da spinte di tipo pubblico (ad esempio, militari o civili).
Queste possono anche essere invenzioni potenziali del passato, ora attuate. In particolare, l'autore rileva che a volte le piccole innovazioni, spesso adattamenti, perfezionamenti delle grandi, portano avanti lo sviluppo economico, anche più di queste ultime.
Sylos Labini nota anche come certi elementi stimolino l'immissione di innovazioni nei processi, in primo luogo, la crescita della domanda reale. Più essa è veloce, più è probabile che nella produzione siano introdotte le ultime innovazioni (sia tecniche, sia organizzative) proposte sul mercato.
Altro stimolo all'introduzione di innovazioni è l'andamento dei costi. Quando i costi aumentano, serve compensare tale incremento, accrescendo l'efficienza dei fattori produttivi impiegati, riorganizzando le industrie con innovazioni tecniche o di gestione. In tal senso, il capitalismo industriale è in un processo continuo di ristrutturazione. In ultimo luogo, anche la presenza di forti conflitti sociali può spingere ad un incremento dell'utilizzo delle macchine nella produzione.
La politica pubblica della ricerca può unificare le tre spinte; essa viene effettuata da tutti governi, anche da quelli critici riguardo agli interventi pubblici nell'economia, i quali piuttosto che agire direttamente mediante laboratori pubblici, danno incentivi fiscali e creditizi, aiutano con contratti, commesse ed una politica legislativa dei brevetti e delle licenze.
In conclusione, per Sylos Labini i legami tra innovazione ed occupazione appaiono alquanto complessi: contano la rapidità dell'incremento dell'offerta di lavoro, del reddito nazionale (dal quale ha origine la domanda di lavoro) e della produttività (che dipende proprio dalle innovazioni tecnologiche e organizzative). Quindi, da una parte, le innovazioni possono generare disoccupazione, secondo la rapidità dell'incremento del reddito.
Dall'altra, l'aumento della forza lavoro può far aumentare la disoccupazione, anche se non vengono espulsi lavoratori né per effetto di innovazioni, né per altre motivazioni.

Naturalmente, al dibattito sul rapporto tra progresso tecnico ed occupazione hanno partecipato numerosi autori, ma si è ritenuto in questa sede di proporre in merito soltanto il pensiero dei più significativi.

 


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